TAKER O GIVER ?

TAKER O GIVER ?

Il viaggio verso l’illuminazione spesso inizia con un pessimo giorno.

(dal film “Dancing on a dry salt lake” di #Dominique de Fazio)

Al di là delle competenze che abbiamo, è ormai opinione unanime che il successo – in qualunque campo e a qualsiasi livello – dipende principalmente dalla nostra capacità di  gestire le relazioni interpersonali.

Tutto gira intorno ad una semplice domanda: pensiamo sia giusto dare in funzione di quanto riceviamo o riteniamo sia giusto spenderci senza pensare a quanto otterremo in contropartita ?

Anche se entrano in gioco altri fattori, sostanzialmente, tutto dipende dalla risposta che scegliamo. La scelta dipende dal rapporto che abbiamo con la “reciprocità”, dal modo in cui viviamo la relazione tra dare e avere.

Ovviamente, la reciprocità non riguarda quantità di denaro, prodotti, beni da portare a casa in confronto al prezzo pagato. E’ qualcosa di diverso e di più intimo. Si tratta dell’atteggiamento intrinseco, del naturale e spontaneo approccio alle relazioni, quale risulta, in senso lato, dalla combinazione del proprio essere con l’educazione ricevuta.

Per marcare una quanto meno basica differenza di atteggiamento e di approccio al solo scopo di far meglio comprendere il significato di reciprocità – dato che non esiste il tutto bianco o il tutto nero – si possono delineare principalmente due tipi di guida: i #taker e i #giver.

I taker sono coloro che vogliono ricevere più di quanto sono disposti a dare. Si tratta di quelle persone che, in perenne competizione, antepongono i propri interessi a quelli altrui, convinti di doversi prendere cura in primo luogo di se stessi perché nessuno lo farà per loro. Per il taker le relazioni sono quasi sempre sfide all’OK Corral.

I giver hanno un approccio diametralmente opposto: si concentrano su quanto possono dare agli altri, di come possono essere d’aiuto piuttosto che su quanto vogliono ottenere.

Mentre il taker studia la strategia per portare a casa più di quanto debba concedere, il giver, restìo a qualsiasi analisi costi-benefici, mette a disposizione il proprio tempo, le proprie competenze, le proprie idee, le proprie relazioni senza calcoli di convenienza.

Facile comprendere come nella società occidentale, soprattutto nel mondo del lavoro, dove l’equlibrio dare/ricevere è di per sé influenzato da più fattori e le dinamiche sono spesso fra loro contrastanti, i giver siano quasi mosche bianche. Ed è per questi motivi che, in questo ambito, si è fatta largo una figura intermedia – il #matcher – la cui strategia è quella di combinare le due posizioni precedenti, cercando di pareggiare i conti.

Di fatto, proprio perché non esiste una netta demarcazione fra queste figure, è possibile che una persona si comporti da taker quando deve tutelare i propri interessi, diventi giver quando deve formare un collaboratore e si trasformi in matcher quando deve condividere le competenze con un collega, anche se, in ogni caso, a prescindere dai calcoli di convenienza, ognuno è portato a mantenere il proprio stile primario di reciprocità. Essere taker o giver, in fondo, è principalmente un’attitudine relazionale personale, un habit la cui differente portata si nota soprattutto a lungo termine.

Ma esiste uno stile vincente ? Dipende.

A prima vista, potremmo essere portati a pensare che lo stile più vantaggioso sia il taker, ma questa sarebbe una conclusione frettolosa e superficiale.

Commetterebbe infatti un grave errore chi valutasse troppo precipitosamente l’eccessiva affidabilità e disponibilità del giver come ingenuità di chi si fa mettere i piedi in testa. Nelle organizzazioni – e nel mondo delle aziende in particolare – c’è un elemento fondamentale da considerare: il fattore tempo.

Intendiamoci: il taker e il matcher sono performanti, i dati lo dimostrano. Ma quando è il giver a raggiungere il successo si verificano effetti collaterali magici proprio perché, nella stessa unità di tempo, i comportamenti e le azioni poste in essere hanno già prodotto effetti positivi anche in altri campi, che si riescono ad individuare solo allargando la visione concettuale senza rimanere focalizzati sul singolo obiettivo.

Per cercare di spiegarne la portata, bisogna preliminarmente superare la convinzione limitante secondo cui essere affidabile, altruista e gentile equivale ad essere debole. A meno che il mondo non finisca domani, non vince sempre chi urla di più, nemmeno se al momento così sembra. E il potere della gentilezza, nelle organizzazioni di qualsiasi tipo, è un valore.

In più, non è assolutamente detto che chi tiene a costruire e mantenere una sana relazione, dimostrandosi sin da subito disponibile e gentile, sia costretto a per questo a perdere di vista l’obiettivo. Non si tratta di opzioni alternative, né serve applicare il machismo. I giver hanno ben chiaro ciò che vogliono, solo che lo perseguono con una strategia diversa e molti vantaggi, forse apparentemente meno immediati e non collegati direttamente il singolo obiettivo perché di portata strutturale, si vedono con il tempo.

Quando a vincere è un taker, c’è sempre qualcuno che perde qualcosa. Il modo con il quale il taker raggiunge il risultato a volte stride con l’ambiente, con la filosofia aziendale, con il credo delle risorse interne, rischia di generare invidia, trasmettere arroganza, favorendo la maturazione di atteggiamenti contrastanti.

Quando invece a vincere è un giver, si genera una risonanza fra i colleghi, nell’ambiente, nel clima aziendale, nei collaboratori. Le persone fanno il tifo per il giver che, così facendo, crea valore: economico, finanziario e – cosa più importante – umano e relazionale.

Mentre i taker vincono nonostante il loro atteggiamento, i giver vincono grazie al loro atteggiamento. Ed è questa la garanzia del successo a lungo termine, l’unico modo con cui le aziende possono sopravvivere a se stesse.

Meglio raggiungere l’obiettivo lottando contro gli ostacoli o grazie all’aiuto di persone che credono in te ? Randy Komisar, venture capitalist americano, sostiene che “vincere è più facile se tutti vogliono che tu vinca: se non ti fai nemici, vincere è più facile.”

Concretamente, la leadership del giver è davvero magica: non si impone, si lascia scegliere da chi volontariamente vuole. Chi decide di seguire il giver ha fiducia nel fatto che ogni decisione sia presa nell’interesse di tutti (e quindi anche nel proprio) e matura la convinzione di contribuire a qualcosa di grande.

Il giver non è un motivatore. Sarebbe riduttivo. Il giver è molto di più: è un whistleblower, un risvegliatore, un ispiratore, un modellatore del ‘perché‘. Il giver riesce a trasferire ai propri uomini il perché dell’azienda intercettando il loro, genera fiducia e autostima, costruendo quello spirito di appartenenza che garantisce unità e sicurezza in tutta la squadra.

In quanto esseri umani, abbiamo bisogno di vivere questa sensazione. Per questo il giver realizza una magia che si protrae a lungo termine.

E’ una questione culturale. In Italia, ci sono – sì – esempi di aziende guidate da pragmatici realisti visionari, ma c’è ancora molto da fare. La buona novella è che la scintilla dell’illuminazione può partire da chiunque e a qualsiasi livello…e così si può imparare a danzare “on a dry salt lake”.

Pura utopia ? Qualcuno sostiene di sì, ma la storia è piena di persone che, grazie a quella che altri avevano definito pazzia, hanno realizzato ciò che avevano già visto nella loro mente, contribuendo in modo molto concreto ad un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità.

Non conviene forse rincorrerla la nostra utopia ?

“L’utopia è là nell’orizzonte. Mi avvicino di due passi e lei si allontana di due passi. Cammino 10 passi e l’orizzonte si sposta di 10 passi. Per tanto che cammini non la raggiungerò mai.”

“ Ma allora, a che serve l’utopia ?”

“Ad andare avanti !” #(Eduardo Galeano)